PICICA: "I rapporti
di produzione, per Marx, non sono questione che appartenga meramente
all’economia, come pensavano gli economisti volgari e, dopo di lui, i
marxisti tra cui il Moro di Treviri rifiutava di essere annoverato.
Riguardano la soggettività e le lotte, le forme di organizzazione e
quelle di sfruttamento, la potenza della vita in comune e i dispositivi
di cattura. Parlano della costruzione del mondo e dei rapporti di forza.
Se non si condivide questo, il capitalismo diventa l’unico soggetto
della Storia: cessa di essere, marxianamente appunto, un rapporto
sociale, per trasfigurarsi in un’entità totalitaria e diabolica,
autonoma e che si sviluppa per proprio conto." EM TEMPO: A dica do texto é de Bruno Cava. A tradução é de Leonora Corsini.
"As relações de produção, para Marx, não são questões que dizem respeito apenas à economia, como pensavam os economistas vulgares e, a partir deles, muitos marxistas entre os quais o Mouro de Trier se recusaria a ser incluído. Elas têm a ver com a subjetividade e as lutas, com as formas de organização e a potência da vida em comum, e os dispositivos de captura. Falam da construção do mundo e das relações de força. Se não se compartilha disto, o capitalismo se torna o único sujeito da História: deixa de ser, como Marx apontou, uma relação social, para se transfigurar em uma entidade totalitária e do mal, autônoma e que se desenvolve por conta própria."
La storia non si è mai addormentata
di GIGI ROGGEROA cosa serve un pamphlet politico? A dare delle indicazioni che siano fondate sulla materialità delle forze in campo e sull’attualità delle tendenze possibili. Se poi si parla delle “rivolte mondiali”, ci si sta assumendo un compito gravoso. Marx, Lenin e gli altri rivoluzionari ci hanno insegnato che il problema non è fare una “filosofia” delle insorgenze, ma costruire dentro di esse discorso comune e direzione politica, macchine da usare per le lotte e i processi di organizzazione. Fa tutto questo Il risveglio della storia di Alain Badiou? Ci sembra proprio di no. Scagliandosi contro le pretese degli intellettuali occidentali di spiegare a tunisini ed egiziani quello che dovrebbero volere, il filosofo francese ammonisce in tono perentorio: “noi dobbiamo porci come studenti di questi movimenti, e non come loro stupidi professori”. Giusto, però de te fabula narratur. Al duro lavoro militante di ricerca dentro i movimenti reali, si rischia così di sostituire la facile scorciatoia dell’assertività ex cathedra: non si prova a pensare, dall’interno, quello che le rivolte potrebbero essere, ma si spiega loro, dall’esterno, cosa dovrebbero essere.
Genealogie e trascendenze
Il titolo è intrigante: ma qual è questa Storia che si è risvegliata? É quella che Fukuyama aveva ritenuto finita con la vittoria del capitalismo neoliberale. Badiou condivide l’idea del conservatore nippo-americano, tuttavia con le “primavere arabe” (e un po’ con gli indignati spagnoli, anche se non troppo perché non tutti i discorsi sono quelli che il filosofo francese vorrebbe ascoltare) la Storia si è riaperta. Di fronte a un’ipotesi così importante, epocale si potrebbe dire, è lecito chiedersi: come una Storia finita si è potuta risvegliare? Attraverso una “rivolta storica”, ossia “il risultato della trasformazione di una rivolta immediata, più nichilista che politica, in rivolta prepolitica”. Quali siano le caratteristiche di queste rivolte, Badiou non ce lo dice. O meglio, non c’è nessuna peculiarità delle lotte, non ci sono cicli, fasi o sedimentazioni soggettive: le loro caratteristiche sono astoriche. É questo l’Evento che irrompe in una Storia priva di determinazione storica. Alla domanda su come esso si produca non possiamo trovare risposte, se non nel campo della teologia: è un miracolo, annunciato – ex post – dal filosofo. É per definizione puro e disincarnato, a differenza dei processi organizzativi, delle composizioni sociali e dei soggetti concreti che li animano, contraddittori e contaminati. Questo Evento non ha genealogia, ma solo trascendenza: avviene, così come Gesù nacque dal ventre di Maria risvegliando anche lui la Storia.
Si dirà che i rivoltosi qui vengono trattati meglio rispetto a Žižek (Considerazioni politicamente scorrette sulla violenza metropolitana), che li catalogava come ciechi portatori di una violenza insensata prodotta dal capitalismo. Forse, ma anche in Badiou è tanto feroce la critica allo Stato, quanto è debole la capacità di cogliere le soggettività che quello Stato sfidano. Si tratta, al più, di una massa inconsapevole e informe, costretta alla rivolta dalla miseria e dall’alienazione, incapace di andare oltre “il puro godimento nello spaccare quello che esiste” se non si sottomette all’Idea – di cui è detentore, ça va sans dire, il filosofo. Sono proprio i soggetti di classe, nella loro materialità, i grandi assenti di questa Storia, assopita o risvegliatasi: Badiou – al contrario del Mao a cui ideologicamente si richiama e che fondava la prospettiva rivoluzionaria sull’inchiesta nel movimento contadino dello Hunan – non ci dice nulla di chi si tratta, di quali sono le loro forme di vita e di socializzazione, del perché si rivoltano o perché lo potrebbero fare (sarebbe tempo perso con l’“aneddotica”, scrive). Anzi, bisogna passare dal concetto “freddo” di classe, semplicemente “analitico e descrittivo”, alla massa, “principio attivo delle rivolte”. É una figura indistinta, senza volto e senza storia, a fare l’Evento. Scusate, diciamola correttamente: è l’Evento a utilizzare per i propri oscuri scopi questa figura indistinta, “non politica, né prepolitica”. La determinazione storica non conta nulla: “quello che conta non è tanto quello che esiste quanto quello che non-esiste”. E addio materialismo.
In questa struttura analitica, non è facile per Badiou rispondere alla domanda se si può essere comunisti senza essere marxisti. L’è peso el tacon del buso, se vogliamo usare il linguaggio popolare che il francese impiega nel pamphlet (quello astratto e metafisico è riservato ai libri su San Paolo e ai convegni accademici, ma tant’è, l’autonomia della filosofia è un vizio di scuola). Il marxismo viene infatti ridotto al “ruolo determinante dell’economia”, vale a dire – aggiunge – alla “teoria dei rapporti di produzione”. Qui sta il nocciolo dell’equivoco. I rapporti di produzione, per Marx, non sono questione che appartenga meramente all’economia, come pensavano gli economisti volgari e, dopo di lui, i marxisti tra cui il Moro di Treviri rifiutava di essere annoverato. Riguardano la soggettività e le lotte, le forme di organizzazione e quelle di sfruttamento, la potenza della vita in comune e i dispositivi di cattura. Parlano della costruzione del mondo e dei rapporti di forza. Se non si condivide questo, il capitalismo diventa l’unico soggetto della Storia: cessa di essere, marxianamente appunto, un rapporto sociale, per trasfigurarsi in un’entità totalitaria e diabolica, autonoma e che si sviluppa per proprio conto.
Differenze radicali
Allora no, non si può proprio essere comunisti senza situarsi dentro la composizione di classe, senza fare inchiesta nelle lotte e impegnarsi nei processi di organizzazione. Ma su questo Badiou è chiaro: l’organizzazione, “il lavoro della verità nuova”, comincia solo dopo l’Evento. E siccome l’Evento può solo essere, religiosamente, annunciato o rivelato, si può tutt’al più teorizzare quello che è successo, mai organizzare quello che può succedere. Questa è la differenza di fondo tra la filosofia e la politica rivoluzionaria, tra un’Idea e un movimento reale.
Chiudendo il libro il dubbio ti assale: e se in realtà in mezzo a questa massa indistinta e astorica, informe e prepolitica, il soggetto fosse ben presente, dall’inizio alla fine, e non fosse altro che il filosofo stesso? In questo caso, allora, varrebbe davvero la pena di essere maoisti: chi non fa inchiesta non ha diritto di parola.
* Pubblicato su “il manifesto”, 18 luglio 2012.
Fonte: UniNomade
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PICICA: A tradução abaixo é de Leonora Corsini
A HISTÓRIA NUNCA ESTEVE ADORMECIDA
O
que é um panfleto político? Para dar algumas indicações baseadas na
materialidade das forças em campo e nas tendências atuais possíveis. Ao
falar das "lutas globais", se está assumindo uma tarefa pesada. Marx,
Lênin e outros revolucionários nos
ensinaram que o problema não é fazer uma "filosofia" da insurgência, mas
para construir a partir das insurgências um discurso comum e uma
direção política, utilizá-lo como máquinas para as lutas e para os
processos de organização. Será que o Despertar da história de Alain
Badiou faz isso? Parece que não. Protestando contra as pretensões dos
intelectuais ocidentais em explicar as insurgências de tunisianos e
egípcios, em dizer o que eles deveriam querer, o filósofo francês
adverte peremptoriamente: "devemos nos interrogar como alunos desses
movimentos, e não como seus estúpidos professores". Dito de outra forma,
o trabalho duro dos movimentos militantes de pesquisa real deve ser
substituído pelo caminho mais fácil da assertividade ex cathedra: não se
trata de pensar a partir do interior, do que poderia ser resolvido, mas
de explicar a partir do exterior, do que deveria ser.
Genealogias e transcendência
O título é intrigante; afinal, qual é essa história que despertou? É aquela que Fukuyama acreditava que havia acabado com o triunfo do capitalismo neoliberal. Badiou a princípio coincide com a idéia do conservador nipo-americano, no entanto, com a "primavera árabe" (e um pouco "com os indignados espanhóis, embora não muito, porque nem todos os discursos são o que o filósofo francês quer ouvir) a história é reabertoa. Diante de uma hipótese tão importante, epocal, poderia ser dito, surge a pergunta: como uma história que chegou ao fim pode ser capaz de despertar? Através de uma "revolta histórica", "resultado do processamento de um dado instante, mais niilista do que político, insurgência a-política". Quais as características dessas revoltas, Badiou não nos diz. Ou melhor, não há nehuma peculiaridade nessas lutas, não se trata de ciclos, fases ou sedimentações de subjetividade: suas características são a-históricas. É isto, um acontecimento que irrompe na história sem determinação histórica. Ao nos indagar como este evento é produzido, não conseguimos encontrar respostas a não ser no campo da teologia: é um milagre, anunciou - a posteriori - o filósofo. É, por definição, um evento puro e desencarnado, em oposição aos processos de organização e composição dos sujeitos sociais na motivação de suas lutas concretas. Este evento não tem genealogia, mas é pura transcendência; é, como Jesus que nasceu do ventre de Maria para fazer despertar a História.
Alguém poderá dizer que os insurgentes recebem melhor tratamento que o de Zizek (observações politicamente incorretas sobre violência metropolitana), que os classificou como portadores de uma violência cega e sem sentido, produzida pelo capitalismo. Talvez, mas também é verdade que em Badiou há uma crítica tão feroz do Estado, quanto é fraca a capacidade de compreender a subjetividade que desafiam o Estado. Trata-se, no máximo, de uma massa inconsciente e sem forma, um levante forçado pela pobreza e alienação, incapaz de ir além do "puro gozo na fragmentação e divisão em que existe", a menos que se submeta à Idéia - que ele, o filósofo, detém, ça va sans dire. São precisamente os sujeitos das lutas, em sua materialidade, os grandes ausentes da História, adormecida ou desperta: Badiou - ao contrário de Mao a quem ideologicamente se associa que fundamentava a perspectiva revolucionária na pesquisa dos movimentos de camponeses de Hunan – nada diz sobre quem são, quais as formas de vida e de socialização, do porquê se revoltam ou poderiam se revoltar (seria tempo perdido com "anedótica", escreve ele). Assim, segundo Badiou, é preciso passar de um conceito de classe “frio", simplesmente "analítico e descritivo, ao conceito de massa, o “elemento ativo das rebeliões". É esta figura sombria, sem rosto e sem história, que faz irromper o acontecimento. Desculpem-me, vamos dizer corretamente: é o Acontecimento que se utiliza, em prol de seus próprios propósitos obscuros esta figura indistinta “nem política, nem pré-política". A determinação histórica não significa nada “o que importa não é tanto aquilo que existe, mas aquilo que não-existe". E adeus materialismo.
Neste quadro analítico, não é fácil para Badiou responder à pergunta se alguém pode ser comunista sem ser marxista. L’è peso el tacon del buso, para usar a linguagem popular que os franceses usam em seus panfletos (que é reservada aos tratados abstratos e metafísicos de São Paulo e às conferências acadêmicas, mas lá está ela, a autonomia da filosofia é vício da academia). O marxismo fica, com efeito, reduzido ao "papel determinante da economia", ou seja - Badiou acrescenta – “à Teoria das relações de produção". Eis aí a raiz do equívoco. As relações de produção, para Marx, não são questões que dizem respeito apenas à economia, como pensavam os economistas vulgares e, a partir deles, muitos marxistas entre os quais o Mouro de Trier se recusaria a ser incluído. Elas têm a ver com a subjetividade e as lutas, com as formas de organização e a potência da vida em comum, e os dispositivos de captura. Falam da construção do mundo e das relações de força. Se não se compartilha disto, o capitalismo se torna o único sujeito da História: deixa de ser, como Marx apontou, uma relação social, para se transfigurar em uma entidade totalitária e do mal, autônoma e que se desenvolve por conta própria.
Diferenças radicais
Mas não, não se pode ser comunista sem se colocar no interior da composição de classe, sem fazer pesquisa nas lutas e se impregnar dos processos de organização. Mas sobre isso Badiou é claro: a organização, o "trabalho da verdade nova", começa somente depois do Evento. E o Evento só pode ser, religiosamente, anunciado e revelado, pode-se no máximo teorizar sobre o que já aconteceu, e não organizar aquilo que pode acontecer. Esta é no fundo a diferença entre a filosofia e a política revolucionária, entre a Idéia e um movimento real.
Fechando o livro, a dúvida te assalta: e se na realidade, no meio dessa massa indistinta e a-histórica, informe e pré-política, o sujeito estivesse bem presente, do início ao fim, e não fosse outro que o próprio filósofo? Neste caso, então, valeria a pena ser maoísta: quem não faz pesquisa não tem direito à palavra.
Fonte: Universidade Nômade
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